FLAIANO, SATIRA E MALINCONIA
Tommaso Pincio parla del romanzo Premio Strega del 1947 e del suo autore, importante figura della cultura italiana, spesso ricordata solo per i suoi formidabili aforismi.
[Questo articolo è uscito sul blog di Tommaso Pincio il 7 luglio 2024, che gentilmente ci concede la pubblicazione anche sul nostro Spazio. ‘Tempo di uccidere’ è un consiglio per la lettura che vale sempre. Uno dei classici più trascurati della letteratura italiana. I toni delle descrizioni di Flaiano nel suo libro, sono molto simili a quelli con cui viene dipinto il nostro territorio in un reportage di Civinini, ‘Nel regno della febbre’, pubblicato nel 19261]
Nessuno capì cosa disse ma risero tutti lo stesso. Accadde d’estate, nel 1947, sulla terrazza di un albergo romano che straripava di gente accorsa per la prima edizione del premio Strega. A presiedere il tavolo degli scrutatori, Francesco Jovine. Leggeva ad alta voce i nomi che ogni singolo giurato aveva indicato col suo voto. Li leggeva uno a uno e con molta flemma, facendo fremere i giornalisti, in particolare quelli venuti da Milano, perché la lentezza levantina dello spoglio rischiava di far saltare gli appuntamenti telefonici con le redazioni. L’orologio di Trinità dei Monti, distante poche decine di metri in linea d’aria dalla terrazza, aveva battuto da un pezzo la mezzanotte, quando infine il premio trovò un vincitore. Il nome di Flaiano, in gara con Tempo di uccidere, era stato ripetuto novantadue volte. A quel punto lo scrittore salì sul palco e mentre tutti applaudivano, dalla folla si levò un grido, una richiesta: “Ennio, dicci qualcosa.” Preso alla sprovvista o forse intimidito da un successo che pensava di non meritare, Ennio tentennò. Non gli veniva niente di brillante da dire. Incalzato dal microfono che un cronista gli aveva schiaffato sotto il mento, qualcosa poi bofonchiò ma le sue parole si persero nella confusione, strappando comunque risate. Malgrado fosse al primo romanzo – il solo che avrebbe scritto – la sua fama di uomo dalla battuta pronta e ficcante era già molto solida. Una fama rafforzatasi con gli anni, al punto che ancora oggi, a mezzo secolo dalla scomparsa, Flaiano viene ricordato perlopiù – e spesso a proposito – come un impagabile coniatore di aforismi e frasi satiriche, quando invece è stato molto altro. Per certi versi fu lui stesso a chiudersi in questa gabbia. Sollecitato da un intervistatore a dare una stringata definizione di sé per una ipotetica enciclopedia, si descrisse così: “Scrittore minore satirico dell’Italia del benessere,” omettendo il tanto altro, le decine e decine di film cui collaborò come sceneggiatore, a cominciare da La dolce vita e 8½, e in fondo anche lo stesso Tempo di uccidere, romanzo sulla pagina buia della campagna coloniale d’Etiopia, che di satirico ha poco o niente, pervaso com’è di un esistenzialismo che sconfina nell’onirico, in bilico tra Conrad e Camus. Eppure quel suo autoritratto minimale e all’apparenza parziale diceva il vero, se lo si osserva dal lato giusto, presentando attenzione ai dettagli.
Flaiano aveva un’idea socratica della satira. Scrivere satiricamente per lui voleva dire “conoscere noi stessi. Conoscere che cosa siamo, che cosa vogliamo e, forse, da dove veniamo” ovvero guardarsi intorno per cogliere quei lati penosi e ridicoli o anche solo umani della vita in cui le cose si illuminano di assurdo. Prendiamo il diario che Flaiano tenne da giovane proprio in Africa, partecipando a una guerra che odiava. In una delle note iniziali, datata 16 novembre 1935, leggiamo: “Un soldato scende dal camion, si guarda intorno e mormora: ‘Porca miseria!” Sul momento sorridiamo, ma appena ci soffermiamo a riflettere sul perché di quel Porca miseria! ci appare evidente che non c’è molto da ridere. Il soldato si aspettava un’altra Africa. Palmizi, donne che danzano, pugnali ricurvi, un luogo simile all’Oriente dei film. Vede invece una terra per nulla esotica, ingrata, uguale alla sua, forse perfino più ingrata della sua, e si sente preso in giro. Che quest’uomo sia senza nome – forse è un commilitone dello scrittore, forse è lo stesso scrittore o magari nessuno, soltanto un soldato immaginario – ci dice che in fondo la nostra condizione non è troppo diversa e che non serve andare chissà dove per sentirsi presi in giro. Ci dice insomma che è in gioco molto di più.
Nondimeno la fama del battutista pesa come un macigno oscurando il resto. La satira è la Cenerentola della letteratura, constatava Flaiano senza particolare amarezza, non dispiaciuto di porsi ai margini, fuori dal coro. Era per questo che si definiva uno “scrittore minore”? In parte. Ma la questione aveva radici antiche. Minore lo è stato infatti dalla nascita. Ultimo di nove figli, venuto al mondo nella Pescara di D’Annunzio quando nessuno lo aspettava più, a tavola ormai sparecchiata, come diceva lui, si è ritrovato sballottato da un collegio all’altro in giro per l’Italia, costretto a lasciare l’infanzia prima del tempo. A Roma è arrivato dodicenne a Roma, nel giorno in cui i fascisti marciavano sulla capitale. Coincidenza dai risvolti fatali. Vivere il fiore degli anni all’ombra di un regime truce e stupido lo fece sentire derubato anche della giovinezza. Era dunque già un trentasettenne la sera dello Strega, un uomo fatto e finito. Chiusa la tragica parentesi della guerra, il paese si caricava di speranze avviandosi al benessere, ma per lui una bella fetta di vita era ormai andata. La sua famosa battuta “Coraggio, il meglio è passato” si spiega anche così, con la sindrome del minore, di chi arriva con un attimo di ritardo. Un malinconico mosso da una compassione notturna e profonda per i vizi degli italiani che pure fustigava, questo in verità era Flaiano. Non a caso, del suo racconto forse più noto, quello del marziano che atterra a Roma, diceva che era una storia triste, perché dopo un’accoglienza trionfale il visitatore venuto dallo spazio finisce spernacchiato da ragazzini irriverenti, preso in giro dal mondo anche lui come quel soldato in Africa, come ognuno di noi cioè.
U. Fracassa, Abissini di palude, in M.V. Francesca Tomassini (a cura di), Scritture postcoloniali, Roma, Ensemble, 2018, pp. 95-123.