PER CHI È RASSICURANTE PATOLOGIZZARE LE INSUFFICIENZE?
Domande sul merito e sul metodo dell'ultima esternazione sulla scuola di Garimberti.
Negli ultimi giorni, ha destato molte polemiche un intervento del filosofo e saggista Umberto Galimberti che si è espresso negativamente sull’eccesso di patologizzazione, corrispondente all’assegnazione di un’etichetta diagnostica a bambini di scuola primaria, con una serie di difficoltà, i quali, per Galimberti, invece di essere considerati semplicemente meno bravi e bisognosi di più esercizio, sarebbero illecitamente considerati patologici1.
Perché patologgizzare le insufficienze?
Galimberti si domanda: “perché patologizzare tutte le insufficienze?”.
Io credo che questa sia una domanda estremamente pregante e urgente, alla quale tuttavia Galimberti dà una risposta non all’altezza delle questioni che la domanda stessa permetterebbe di illuminare. L’inadeguatezza della posizione sostenuta da Galimberti si gioca, per me, sia in termini di merito che di metodo, di contenuto e di processo.
Galimberti, nel merito, fa riferimento a una serie di profili diagnostici molto differenti, mettendo insieme profili DSA, asperger, autistici, tutti accomunati dall’essere chiamati in causa con eccessiva disinvoltura. “Ai tempi miei non c’erano tutte ste condizioni”, sentenzia, “c’era uno più bravo e uno un po' meno bravo che poi si esercitava e diventava bravo”.
Qui il problema riguarda l’accomunare disturbi del neuro sviluppo corrispondenti a deficit molto differenti: di specifiche funzioni, nel caso dei DSA, e globali, nel caso del disturbo dello spettro dell’autismo (asperger è una dicitura che non trova più uso diagnostico2).
Oltre ad accostare condizioni molto differenti, Galimberti arriva anche a fare affermazioni non aderenti alla realtà, si stupisce, infatti che tutti questi bambini e bambine, inadeguatamente diagnosticati e diagnosticate, riceverebbero l’ausilio di uno di una insegnante di sostegno. In realtà in Italia un bambino o una bambina che ha una diagnosi DSA, non ha diritto, fortunatamente, al o alla docente di sostegno, in virtù del fatto che la sua non è una condizione globalmente deficitaria, in termini cognitivi3.
La ricerca del colpevole
Un’ultima affermazione, quantomeno discutibile, riguarda l’interesse dei genitori a far porre diagnosi ai figli e alle figlie, “queste cose aumentano perché ci sono i genitori che pur di far fare un percorso più facile ai loro figli, gli fanno fare una bella ricetta dal medico e così c’ha il percorso facilitato”. Rispetto a questa presa di posizione, mi sento di dissentire, sulla base della mia esperienza clinica, laddove spesso i genitori sono sollecitati dall’istituzione scolastica ad approfondire, attraverso una valutazione del bambino, le difficoltà che i docenti riscontrano in classe. Sollecitazione che, peraltro, non viene accolta sempre di buon grado dai genitori, cosa che comporta non poca incomprensione e conflittualità tra scuola e famiglia, in un gioco di rimpallo della “colpa” tra adulti interessati più a certificare la loro adeguatezza che a interrogarsi sul loro ruolo rispetto alla difficoltà che il bambino manifesta.
Ecco questa ricerca del colpevole, mi pare sia il metodo che qualifica anche l’intervento di Galimberti. È presto detto, ci sono più diagnosi perché i genitori le vogliono, questi genitori incapaci di sostenere la frustrazione di vedere i loro figli e le loro figlie in difficoltà e incapaci di trovare altra soluzione che non sia la ricerca della facilitazione. Per cui la risposta alla domanda “perché patologizzare tutte le insufficienze?” sarebbe “perché i genitori non tollerano di vedere i loro figli e le loro figlie in difficoltà”.
Il problema di questa risposta, è che, provenendo dalla ricerca del colpevole, una volta trovato “quello che qui sta sbagliando qualcosa”, in automatico assolve tutti gli altri, o quantomeno ne tacita le responsabilità, favorendo l’illusione di vivere in un sistema in cui le parti in causa sono tra loro disconnesse e isolabili, irrealisticamente non interdipendenti.
In tal modo restiamo con una buona domanda in mano, “perché patologizzare tutte le insufficienze?”, alla quale scegliamo di dare una risposta frettolosa che non consente di assumere la responsabilità collettiva di questa domanda.
Propongo di declinare un po' diversamente la domanda, nell’ottica di proporre una risposta più articolata: “Per chi è rassicurante patologizzare tutte le insufficienze?”
Attualmente, mi pare che possa essere rassicurante per i genitori di cui ci ha detto Galimberti, spaventati dal fallimento dei figli e delle figlie, ma può essere rassicurante anche per tutti quei docenti che scambiano le diagnosi come un’etichetta che li esonera dall’interrogarsi sulla loro capacità di modulare e differenziare il loro insegnamento, ma anche per lo Stato che invece di mettere genitori e docenti nelle condizioni di cooperare efficacemente nell’interesse dei minori, stressa l’istituzione scolastica con classi sempre più numerose e l’assenza di personale, realmente qualificato: penso agli psicologi scolastici, che nelle scuole potrebbero intervenire in molte situazioni di difficoltà relazionali (insegnante-allievo, genitori-insegnati, genitori-insegnati-allievo) che incidono negativamente sulla qualità dell’esperienza di apprendimento.
Come psicologa e psicoterapeuta, penso anche al vantaggio che come professionisti abbiamo nel pensare a interventi tutti focalizzati sul bambino e sula bambina, spesso accettati più facilmente dalle famiglie e dalla scuola, mettendo, alle volte, eccessivamente da parte la componente familiare e sistemica che può incidere sull’emersione e l’aggravarsi di alcune vulnerabilità dei più piccoli.
Gli unici a non sentirsi rassicurati da questa patologizzazione temo siano proprio i bambini e le bambine che scegliamo di vedere solo con la lente del problema, della vulnerabilità e della patologia, come se fosse tutta a carico loro e dei loro meccanismi neurobiologici. Loro no, non sono rassicurati, possono sentirsi spaventati, arrabbiati, disorientati, quando non disperati, nel senso del non poter sperare per loro stessi.
Di questi bambini e di queste bambine siamo tutti e tutte responsabili, tutti noi adulti siamo responsabili di abbandonarli alla loro vulnerabilità, perché incapaci di sederci insieme allo stesso tavolo, quello degli adulti appunto che condividono a vario titolo la responsabilità educativa dei più piccoli, con spirito di corresponsabilità e reciproca comprensione.
Perché della ricerca del colpevole, non se ne fa niente nessuno, tantomeno le bambine e i bambini, che da questa attitudine da adulti fragili possono solo imparare a sentirsi loro colpevoli, purtroppo.
La Legge 8 ottobre 2010, nº 170 riconosce la dislessia, la disgrafia, la disortografia e la discalculia quali disturbi specifici di apprendimento, denominati "DSA". https://www.mim.gov.it/disturbi-specifici-dell-apprendimento-dsa- https://www.istruzione.it/esame_di_stato/Primo_Ciclo/normativa/allegati/legge170_10.pdf